Teggiano

Dalla terrazza accanto al Castello di Teggiano, in pieno centro storico, si gode una magnifica vista sul Vallo di Diano, che sembra di dominare. Il nome della cittadina ha recuperato nel 1862 l’antica denominazione di Tegianum, corrotta in Dianum in epoca medievale, quando l’appellativo si estese ad indicare l’intera valle attraversata dal fiume Tanagro, in seguito all’importanza assunta dall’insediamento.

È proprio dal Castello che si può iniziare la visita della medievale Diano, scelta dai Sanseverino come roccaforte e da loro trasformata in un piccolo scrigno d’arte.
Filo conduttore sarà proprio la storia di questa potente famiglia ed a raccontarcela saranno le opere d’arte da loro lasciate.
Il castello, di probabile origine normanna, fu ampliato agli inizi del ‘400 da re Ladislao, nel breve periodo in cui Diano fu annessa al demanio regio.
Fu quindi rafforzato dai Sanseverino, ridivenuti padroni del feudo, ed ulteriormente potenziato da Ferdinando d’Aragona nel 1487, quando - dopo la congiura dei baroni - la città passò nuovamente al demanio. In quest’occasione il re stanziò ben ottomila ducati in opere pubbliche e tentò in tutti i modi di accattivarsi le simpatie dei Dianesi, fieri sostenitori dei Sanseverino, persuadendoli della sua liberalità. 
Cinto da una cortina pentagonale con torri angolari, secondo l’impianto consueto nelle fortificazioni aragonesi, il castello era dominato da due torrioni maggiori, oggi molto più bassi di allora: il maschio, interno alla cinta, senz’altro precedente alle strutture aragonesi, e la cosiddetta Torre della Lumaca nell’angolo nord-occidentale, un tempo di altezza doppia rispetto alle altre torri - tanto da vantare un pieno controllo sul Vallo - e servita internamente da una bella scala a chiocciola, che le diede il nome.
Il palazzo interno, dotato di cortile e di un’ampia cisterna, una volta persa la sua funzione militare fu trasformato in una sontuosa e comoda abitazione, oggi proprietà privata ed adibita in parte a struttura espositiva. 

Nella vicina piazza, la Chiesa di S. Maria Maggiore , oggi cattedrale della diocesi di Teggiano-Policastro, fu consacrata in pompa magna nel 1274, ma era probabilmente esistente sin dai primi tempi cristiani.
Oggi ha perso molto dell’aspetto medievale a causa della ricostruzione seguita al terremoto del 1857; da una descrizione fatta subito prima del sisma, si ricaverebbe che l’intero edificio fu girato di 180 gradi (Macchiaroli 1868).
In origine l’entrata sarebbe stata dunque sulla piazza, mentre oggi il portale principale affaccia sullo slargo opposto.

Questo ingresso (1291-1300) è opera di Melchiorre di Montalbano, un architetto formatosi tra le chiese e i castelli dei cantieri federiciani in Puglia, in un ambiente che traeva ispirazione dal mondo classico ma era aperto anche ad altre esperienze; la sua firma è anche sul pulpito (1271) interno alla chiesa.
All’interno sulla destra (per chi entra) si trova il sepolcro di Enrico Sanseverino (1336), opera della bottega scultorea di Tino di Camaino, egemone presso la corte angioina di Napoli. 
L’intervento dell’officina tinesca, indica l’importanza di Enrico, gran connestabile del Regno, nella gerarchia del potere angioino; mentre la presenza della tomba a Diano, sottolinea la rilevanza conquistata dalla città nell’organizzazione dei domini dei Sanseverino. 
Uscendo dal portale laterale, decorato da una lunetta nello stile arcaizzante proprio di Francesco da Sicignano (1509), si può ritornare al castello, notando le steli funerarie romane reimpiegate nella muratura della chiesa, testimoni dell’antica origine del centro.

Costeggiando il lato occidentale del fortilizio e svoltando a destra si raggiunge la Chiesa di S. Antuono 3 una delle più antiche di Teggiano, orribilmente mutilata della sua navatella destra nel 1958 per fare strada alle automobili! Per visitarla, si possono chiedere le chiavi alla signora che abita nel vicoletto a destra subito prima della chiesa.
L’architrave del portale è decorato da un motivo arboreo e un’iscrizione in lettere gotiche ne ricorda l’artefice.
All’interno si ammira una Madonna con Bambino in stile bizantineggiante, dipinta sulla parete sinistra. I ceri votivi - detti cinti - disposti a terra, vengono custoditi in questa chiesa per essere portati in processione dalle donne in occasione delle varie feste religiose del paese.

Proseguendo si incontra il Museo delle Erbe, ove sono in esposizione semi, erbe e piante utilizzate grazie ad una sapienza popolare, agreste ed empirica, tramandata di padre in figlio. 
Accanto al museo vi è l’ex Convento della SS. Pietà , assai caro ai Sanseverino. Eretto nei primi del XIV secolo per le monache benedettine, fu successivamente trasferito ai francescani (1474) da questi potenti feudatari, a cui era addirittura concesso ingerire nella sfera dell’organizzazione religiosa. 
All’ordine francescano i Sanseverino furono sempre legati da una profonda devozione, seguendo le preferenze della dinastia angioina, l’unica a cui concessero una piena fedeltà.
Il portale della chiesa presenta nella lunetta una Pietà dalle forme plastiche un po’ dure, ma di sicura efficacia emotiva, attribuita a Francesco da Sicignano o ad un suo imitatore. Ma è sull’affresco nel refettorio del convento, rappresentante l’Andata al Calvario, che desideriamo indugiare: esso ci restituisce un ulteriore tassello della storia dei Sanseverino.

In un paesaggio quasi fiabesco con castelli e chiesette in cima ai colli, tra alberi e selvaggina, si svolge il dramma di Cristo, che sotto il peso schiacciante della Croce sale sul Golgota. Dietro questo significato evidente il dipinto cela un messaggio politico. Eseguito nel 1487, all’indomani della sconfitta dei baroni da parte degli Aragonesi, ne fu committente un certo frater Alexander - come è scritto in basso - ma i veri ispiratori furono i Sanseverino, come dichiara il loro stemma sul l’incorniciatura a sinistra. 
La passione di Cristo si riferirebbe dunque al martirio dei baroni ribelli, in parte imprigionati e in parte giustiziati; a questo alluderebbero i due scherani che risalgono il Calvario - dove si sta scavando una fossa troppo larga per la croce - come anche la scure portata a spalla, sinistro segnale, non attinente alla crocifissione. In contrapposizione al potere aragonese si richiamano nell’affresco in modo nostalgico gli Angioini, rappresentando in primo piano a destra, a guida delle sante inginocchiate, Elzear de Sabran un santo francescano collaboratore a Napoli di Roberto d’Angiò.

Lo schema architettonico della SS. Pietà - un’ampia scalinata che conduce al portico antistante alla chiesa - si ritrova anche nella vicina S. Pietro, appartenente al periodo angioino. 
Oggi la chiesa ospita il Museo Diocesano  e contiene sculture e affreschi che vanno dall’età romana sino al XVIII secolo.
Il Compianto sul Cristo morto (1510-1512) fu realizzato per la Chiesa della SS. Pietà da Giovanni da Nola, uno dei maggiori scultori napoletani, allora esordiente.
È questo uno struggente gruppo di cinque statue lignee policrome, a grandezza naturale, raccolte intorno al Cristo privo di vita, dall’epidermide consunta.
Quest’opera fu l’omaggio estremo ad Antonello Sanseverino ed al figlio Roberto - morto giovanissimo nel 1508 dopo essere riuscito a riottenere il feudo dal governo spagnolo - da parte di sua moglie Maria d’Aragona.
Nel gruppo scultoreo il giovane Giuseppe d’Arimatea, inginocchiato con un drappo rosso al collo, ha il volto di Roberto; mentre Nicodemo, in ginocchio sul lato opposto, quello di Antonello.
Il messaggio non è in questo caso politico, ma tutto legato agli affetti privati: la pietà riservata al crudele destino dei due ultimi principi della casata.
 La parete dirimpetto all’abside è infatti occupata da una loggia, che oggi ospita l’organo ma che un tempo fu forse la loggia curiale, giustificando il riutilizzo in chiave nobilitante di colonne romane. Si ipotizza infatti che quest’aula fosse in epoca normanna la cappella palatina, mentre l’attiguo Palazzo Carrano, oggi totalmente trasformato, la residenza comitale (Mario De Cunzo 1989).
La bella Cripta di S. Venera è coperta da una volta a crociera sostenuta da colonnine con curiosi capitelli, alcuni dei quali di reimpiego altomedievali. L’unico affresco ancora ben leggibile è la Madonna con bambino tra S. Giovanni Battista e S. Veneranda, realizzato attorno alla metà del ‘300 e riferibile alla cerchia degli stretti seguaci napoletani di Giotto.
La committenza, che non può essere altro in quest’epoca che la famiglia Sanseverino, andò dunque a scegliere tra quanto di meglio poteva offrire il mercato artistico napoletano.
La passeggiata prosegue verso l’unico ingresso sopravvissuto dell’antica cinta muraria, la Porta dell’Annunziata . Lasciata la porta sulla sinistra ed imboccato l’asse principale nord-sud (che ricalca l’antico cardo dell’insediamento romano) si incontra la Chiesa di S. Andrea 10, con inseriti in facciata elementi architettonici e scultorei di epoca romana. Poco oltre vi è sulla destra l’antico Sedile, luogo di riunione del parlamento cittadino a partire dalla metà del XV secolo, banalmente ridotto a fontana pubblica nei primi del ‘900.