Le cause storiche del flusso migratorio

Le cause storiche del flusso migratorio
Tratto da "Così lotanani...così vicini" - Comunità Montana Vallo di Diano - Aprile 2007

L’Italia inizia molto tardi il suo ingresso nelle correnti migratorie e le ragioni sono ben evidenti: ignoranza di questa possibilità, scarsezza di mezzi per sopportare le spese di trasporto, smembramento politico, impossibilità ad uscire dai confini della maggior parte dei regni, principati e ducati italiani.
Scarse sono le notizie dell’emigrazione italiana prima del 1860. Per i paesi europei essa ha, prima di questa data, una lievissima importanza: l’unico contingente è dato dai liguri ed in misura ancor più modesta dalle popolazioni dell’arco lombardo - alpino. 
Con la proclamazione del Regno d’Italia, in alcuni paesi del Mezzogiorno, serpeggiando già un certo malcontento verso il nuovo governo, esplode il fenomeno del Brigantaggio, espressione violenta, protesta selvaggia della miseria, contro antiche e secolari ingiustizie.
Infatti le cause vanno ricercate proprio nella disperazione della maggior parte della popolazione delusa nelle sue decennali attese di giustizia: le terre demaniali rimanevano nelle mani di pochi , gli amministratori comunali continuavano a vessare e a rubare e, ai vecchi, si erano aggiunti nuovi tributi, in definitiva quel tanto che era cambiato per il mondo contadino, era cambiato in peggio.
Dopo il 1860 il fenomeno assume vaste dimensioni che continuano ad intensificarsi sempre più negli anni 1869/1875, con l’esistenza di colonie italiane sia nei Paesi d’Europa e del basso Mediterraneo che nelle due Americhe. 
Una forte spinta viene innanzitutto dalla maturazione dello sviluppo industriale, a seguito della grande crisi agraria del 1870, che porta il trasferimento dei lavoratori dei campi da una regione ad un’altra dell’Italia. In effetti l’arretratezza delle strutture economiche del Meridione dipende dal fatto che esse non hanno conosciuto la “Rivoluzione Industriale”e sono perciò rimaste ancorate quasi esclusivamente, alle attività ed ai processi produttivi primari.
Occorre però aggiungere che il Meridione non ha conosciuto neppure, se non assai tardi e solo parzialmente, la “Rivoluzione Agraria”, il passaggio cioè da una economia agricola tradizionale ad una economia agraria modernamente impostata negli ordinamenti culturali, nei metodi di lavorazione della terra e nella strutturazione giuridica delle figure partecipanti all’impresa. 
Accanto a questi rivolgimenti, nel settore del lavoro, incomincia a prendere forma un nuovo fenomeno nel mondo sociale italiano, che diventerà poi la caratteristica del dopoguerra: l’urbanesimo, conseguente al ridimensionamento della vita economica del Paese e alle prese di coscienza delle masse residenti nelle aree arretrate, del divario esistente tra il loro tipo e il livello di vita e quello di altre zone, in specie urbane.
Gli anni compresi tra 1896-1913, costituiscono per l’Italia il periodo del definitivo decollo industriale, con una fascia industrializzata nel nord-ovest, con un’area di agricoltura e zootecnia sviluppata a conduzione capitalista nella Pianura Padana e, con un Meridione che, seppur con differenziazioni al suo interno, resta area di scarsi investimenti produttivi, mentre il suo principale sbocco occupazionale diviene il pubblico impiego.
Infine con il primo conflitto mondiale, nel quale l’Italia paga un consistente contributo di vittime umane, aumentano le difficoltà di riconversione riproduttiva dell’industria e la grossa crescita del debito pubblico ha disastrosi effetti sul mercato del lavoro, con l’aumento della disoccupazione. 
Durante gli anni del fascismo, gli spostamenti di popolazione sono stati irrilevanti, si assiste così a montanari legati per sempre ai loro villaggi, a persone costrette a stagnare nelle case natie, o comunque di gente obbligata a rimanere nel comune di origine.
L’Italia che in qualche modo, all’interno di questo contesto, vi si può intravedere, è un paese immobile, fermo sotto la dittatura, o meglio, fermato da una legislazione assurda: infatti le leggi del 1931 e del 1939, costituendo freno alle migrazioni, sono leggi anticostituzionali, in quanto la Costituzione Italiana sancisce la libertà per il cittadino di vivere dove egli crede nel territorio dello Stato, in modo tale da poter scegliere liberamente il luogo dove svolgere la propria attività.
Tale regime, preoccupato dall’entità delle migrazioni interne, sia per i gravi problemi amministrativi, assistenziali e dell’occupazione, sia per l’ordine pubblico ed altri motivi di natura politica e socio-culturale, giunge ad una valutazione negativa dell’urbanesimo e ritiene di risolvere il problema, subordinando lo spostamento di gruppi di lavoratori e di famiglie coloniche ad un atto amministrativo, attraverso l’autorizzazione del commissario per le migrazioni.
Una nuova impennata si ha nel secondo dopo guerra, quando l’Italia ridotta in rovina è soggetta a fughe di massa verso gli Stati Uniti che, hanno cautamente aperto le frontiere agli emigranti e ad altre nazioni europee, registrando un intenso ritmo di crescita della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione.
In seguito la ricostruzione e la ripresa della nazione consente un periodo di relativo benessere che vede una flessione notevole del fenomeno migratorio.
Negli anni più recenti tale fenomeno non viene più visto come un sacrificio o come una questione di sopravvivenza, ma semplicemente come una scelta per un avvenire più roseo del presente, un calcolato esodo deciso in funzione di una meditata e riconosciuta convivenza.
In effetti l’emigrazione che parte da un problema economico può e deve diventare affettivo, legame di fratellanza e scambio culturale tra zone di attrazione e zone di repulsione; l’emigrato di conseguenza ha il diritto ed il dovere di sentirsi come persona che si perfeziona e reca il suo apporto al perfezionamento di tutti nella libera dialettica dell’intensa vita socio-culturale anziché, un mero strumento di produzione che al massimo si valorizza per la sua potenzialità economica.

Analizzando la situazione presente nel Vallo di Diano, si può comprendere come la pressione demografica che si è verificata a cavallo dei secoli XIX e XX trova nell’emigrazione la soluzione per contenere gli squilibri tra popolazione e risorse e, rappresenta un importante correttivo, dato che l’economia del luogo, basata principalmente su attività primarie poco redditizie, non può consentire, in particolar modo ai giovani, una sistemazione dignitosa .
Il Vallo di Diano è infatti, caratterizzato da una situazione economica precaria, anche a causa delle quasi inesistenti vie di comunicazione, l’agricoltura si esplica attraverso un’attività di sussistenza con pratiche che depauperano i terreni e disboscano i monti; gli operai e i contadini vivono in condizioni di miseria per la carenza di strutture sociali, per le instabili condizioni economiche e perché la proprietà terriera è concentrata nelle mani di pochi.
Negli anni tra il 1881 e il 1914 le principali correnti migratorie si dirigono verso gli Stati Uniti, il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay ed il Paraguay, mentre i flussi minori sono diretti verso l’Europa dell’Ovest (Francia) e verso l’Africa (Algeria, Tunisia ed Egitto). Dopo la prima guerra mondiale i flussi migratori si dirigono soprattutto verso l’Europa occidentale.
Tra le cause di questi anni legate al fenomeno migratorio sono da menzionare: 
1. La tendenza a spostarsi dove i salari sono maggiori;
2. La volontà dei contadini di emanciparsi;
3. La cattiva amministrazione dei comuni;
4. L’assenza di attività di bonifica;
5. L’esaurimento della fertilità dei terreni a causa della mancanza di concimazione;

L’emigrazione è una causa della disoccupazione; in quegli anni emigrano famiglie intere vendendo quel poco che possiedono, il più delle volte però è il capofamiglia che parte per primo: si tratta quasi sempre di nullatenenti, rare volte di piccoli possidenti.